Quattro aure unite da una luce bianca

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Tra loro si era perso ogni contatto, e per nove anni non erano riusciti a ritrovarsi. Questo fino al terzo anno di liceo: per uno strano caso del destino Lorenzo, Edoardo, Annalisa e Rosa si ritrovano insieme. Grazie a una foto conservata da Lorenzo, i quattro amici si riconoscono e cercano di recuperare il tempo perduto che hanno vissuto distanti.
Ma è stato proprio il fato a riunirli, oppure c’è qualcosa che sfugge al loro giudizio?
Rapimenti misteriosi, scoperte terribili e avventure rocambolesche: la vita dei quattro amici è destinata a cambiare per sempre, mentre silente la sorte imperscrutabile li attende.

Quattro aure unite da una luce bianca – CAPITOLO 5

Martedì 10 ottobre 9:55

Era il giorno dell’assemblea scolastica per l’elezione dei rappresentanti d’istituto. Gli studenti che si erano candidati dovevano esplicitare davanti all’intera scuola i motivi e gli scopi della loro candidatura. Un compito non adatto agli allievi eccessivamente timidi.

La sala riunioni era quasi piena, a prima vista sembrava che le sedie fossero tutte occupate, visto che alcuni alunni erano seduti per terra.

Lorenzo, Niccolò ed Emanuela cercarono con lo sguardo dei posti liberi.

«Ce ne sono tre proprio nella terza fila» segnalò Emanuela. «Corriamo o ce li fregano.»

Camminarono veloci tra i piccoli spazi e li raggiunsero.

«Ci è andata bene» disse Niccolò, slacciandosi la zip della felpa. «Non avevo alcuna voglia di sedermi per terra a spiaccicarmi il posteriore.»

«A chi lo dici» gli fece Lorenzo con un’espressione scocciata. «Io sono ancora frustrato e al contempo inviperito per quello che mi è capitato l’altra settimana. Non avrei sopportato di sorbirmi la scomodità del pavimento.»

«Amico, che ti succede?» gli chiese Niccolò preoccupato prendendogli delicatamente la mano come se stesse consolando un bambino. Niccolò era così. Se Lorenzo era afflitto o di cattivo umore, lui voleva sapere all’istante il motivo perché ci teneva ad aiutarlo: questo era uno dei motivi per cui erano diventati amici. Niccolò era un’ideale spalla su cui piangere.

Prima di rispondere alla domanda, Lorenzo controllò se Emanuela stava origliando. No, per niente, anzi, stava parlando e ridendo con alcune ragazze.

«Sono uscito con Eva. Siamo andati al cinema, abbiamo chiacchierato, fatto una passeggiata… poi io non ho più resistito e l’ho baciata.»

Niccolò restò a bocca aperta: «Sul serio? Raccontami tutto! Com’è stato il bacio?»

«Bello è troppo poco… è stato magico. Le nostre labbra erano incollate, le nostre mani andavano dappertutto. Percepivo l’eccitazione e l’energia che diventavano sempre più forti e incontrollabili. Come un’esplosione stellare, o il getto di un geyser.»

«Addirittura!? Non sai quanto ti invidio.»

Niccolò, il giorno in cui Lorenzo gli aveva presentato Eva, aveva subito perso la testa per lei, però era consapevole che non avrebbe avuto speranze di diventare il suo ragazzo. Erano troppo diversi. Lui era un tipo giocondo e talvolta sprovveduto, lei una tipa seria e sveglia. Erano come la terra e il cielo, l’oasi e il deserto.

«Aspetta, adesso arriva la parte negativa. Quando il bacio è finito, Eva si è messa a ridere, mi ha guardato negli occhi e ha detto: “Non illuderti, ti sei innamorato della donna sbagliata. Sei carino, ma io non posso avere una storia con te”. Le ho chiesto perché, e lei ha detto che era qualcosa che non riusciva a spiegare a parole.»

«E non le hai domandato perché allora aveva accettato di uscire con te?»

«Sì, ovvio. E sai cosa ha risposto? “Volevo solamente vedere come baciavi, sperimentare un bacio tra una bianca e un nero. Tu non mi attrai”.»

«Non posso crederci! Si è presa gioco di te. Che stronza!»

«Puoi dirlo forte! Sai cosa ho fatto? Ho preso la sua bottiglietta di limonata e gliel’ho rovesciata in testa. Poi me ne sono andato.»

«Bel colpo! Dammi il cinque!» Si diedero il cinque per poi stringersi la mano. «Complimenti.»

«Grazie. Sono fiero di me stesso. Da adesso in poi, quando la vedrò alle lezioni di Kung Fu, non la saluterò e non la guarderò più in faccia.»

Allungò la mano verso Emanuela per richiamare la sua attenzione: «Ehi Amy, come mai non ti sei candidata?»

Per due anni consecutivi, Emanuela si era proposta come rappresentante di istituto con l’obiettivo di cambiare la politica della scuola. La prima volta non aveva vinto, la seconda sì, e, adottando le sue misteriose strategie, era riuscita a far approvare la sospensione per chi fumava a scuola, e ad abolire i compiti a sorpresa. Questo le aveva fatto guadagnare popolarità sia in senso negativo che positivo.

«Non me la sento di assumermi questa responsabilità. E inoltre, non saprei che cosa fare. Non ho idee nella testa.»

Quando l’aula si fu totalmente riempita, il preside prese il microfono e invitò gli studenti a mantenere il silenzio: «Buongiorno a tutti. I candidati per l’elezione dei rappresentanti di istituto parleranno davanti a voi cosicché, ascoltando le loro parole, saprete più o meno chi merita il vostro voto.»

Prese una lista e lesse: «Dunque, la prima candidata è Diana Amanti, del quarto H.»

Tutti batterono le mani e la giovane venne avanti sorridente e facendo un inchino. Era una delle più popolari del liceo, stimata e invidiata dalle femmine, e considerata dai maschi la più figa della scuola. Era bella, alta, con i capelli neri scalati, gli occhi marroni, la pelle olivastra e un fisico perfetto. Vestiva colorata e alla moda.

«Dovevo immaginarlo che si sarebbe candidata» bisbigliò Emanuela con disgusto rivolgendosi ai suoi due amici. «Una spocchiosa come lei farebbe qualsiasi cosa pur di attirare l’attenzione.»

«Perché la disprezzi in questo modo?» le chiese Niccolò. «Non è affatto altezzosa. È sensibile, divertente e molto carina.»

Enfatizzò le ultime due parole prolungando la “o” di molto e la “i” di carina.

«Zitti per favore, voglio ascoltare» li ammonì Lorenzo.

Diana afferrò il microfono e si schiarì la voce: «Buongiorno, se venissi eletta come rappresentante, gradirei poter inserire a scuola delle attività extracurriculari… Non fraintendetemi. Quello che intendo è far sì che ogni allievo, almeno una volta alla settimana, possa avere la possibilità di affrontare una lezione su un argomento a piacere che non faccia parte delle materie scolastiche. Per esempio, la mia amica Leonora, che è una bravissima cuoca, vorrebbe svolgere dei corsi di cucina. Poi c’è anche il mio amico Matteo che vorrebbe far conoscere a tutti l’esoterismo

Indicò una tipa dalla lunga capigliatura bionda e gli occhi azzurri, e un ragazzo dai corti capelli scuri, vestito con abiti neri e i polsi pieni di bracciali con le punte. Entrambi si alzarono per farsi vedere.

«Ma loro sono soltanto due dei tanti scolari a cui piacerebbe questa mia proposta. Insomma, penso che sarebbe una cosa utile e ricreativa. Tutto qui. Grazie.»

Restituì il microfono al preside e tutti quanti le fecero un grande applauso. C’era anche chi urlava frasi del tipo: Brava Diana!, Sei bellissima!, Vai così!

«Grazie Diana» disse il preside riprendendo la lista. «Il secondo candidato è un alunno venuto da fuori. Edoardo McNabb, del terzo G.»

Lorenzo, impegnato a inviare un messaggio con il cellulare, sollevò la testa di scatto non appena udì il nome del giovanotto, il quale camminò lentamente verso il preside, afferrò il microfono e mosse timidamente la mano in segno di saluto. Lo scrutò con attenzione senza battere ciglio e senza distogliere lo sguardo. Quel nome e quel cognome erano identici a quelli del suo vecchio amico d’infanzia. Era alto circa un metro e settantacinque, aveva le spalle larghe, le braccia muscolose, valorizzate da una maglia nera aderente con il collo a V, i capelli ricci color carota, gli occhi celesti e il volto costellato di lentiggini. In effetti, quel giovane gli ricordava il suo vecchio compagno di giochi, però trovava improbabile che potesse davvero trattarsi di lui. Sarebbe stato troppo bello per essere vero.

«Mon Dieu! Non è possibile! Non può essere… e se così fosse?»

«Lore, che stai dicendo?» gli chiese Niccolò. «Con chi stai parlando?»

Lorenzo si rese conto che stava pensando a voce alta e, come ridestato da un lungo sonno, sbatté le palpebre e si voltò verso il suo amico assumendo un’aria disinvolta.

«Nic, tu hai capito il nome e il cognome di quel ragazzo?»

«Sì, si chiama Edoardo McNabb. Non lo conosco, credo si sia trasferito qui da poco. È un tipo solitario, però ha l’aspetto simpatico. Perché vuoi saperlo? Dal tono della tua voce sembra che ti interessi particolarmente.»

Lorenzo aprì la bocca, ma si bloccò. Io lo conosco da anni avrebbe voluto dire.

Invece, rispose: «No… non è importante… È che non avevo sentito bene.»

Il tipo dai capelli rossi iniziò a parlare, però Lorenzo non prestava alcuna attenzione alle sue parole. Continuò a fissarlo come se stesse ammirando un panorama mozzafiato con alberi verdi, montagne e vallate spettacolari, laghi e fiumi scintillanti, e distese di fiori appena sbocciati. A un certo punto sentì una lacrima colargli lungo la guancia. Sperava ardentemente che quel giovane fosse lo stesso Edoardo che aveva conosciuto durante la tenera età e da cui si era dovuto separare. Riuscì a stento a trattenere l’impulso di alzarsi, andargli vicino, abbracciarlo, e dirgli: «Edoardo, ti ricordi di me? Sono Lorenzo, il tuo migliore amico! Quello con cui giocavi a fare le gare con le macchine telecomandate!»

10:32

Durante la lezione di letteratura italiana, la classe era profondamente coinvolta nella spiegazione del prof Zampieri.

«Lo pseudonimo adottato dal poeta Francesco de Petracchi, cioè Petrarca, non è casuale, è significativo. Evoca la figura della pietra e dell’arca come due elementi rilevanti della sua poetica. Dovete sapere che il tema della pietra in Petrarca nasce dal momento in cui il poeta si trasferisce a Vaucluse, Valchiusa in italiano. Lì sostituisce le pietre delle ninfe con le pietre delle muse e la trasforma in una Vallis Clausa, in una Valle Chiusa. Petrarca scelse il suo deserto sassoso nella Valle Chiusa dove, trasformandola in un utopico locus amoenus, realizzò il raccoglimento dei sospiri sparsi, cioè delle poesie disciolte. La pietra e l’arca raffigurano una protezione dell’anima dalla storia e dalle trasformazioni.»

L’insegnante si fermò per sorseggiare dell’acqua dalla borraccia che teneva accanto a sé e prese il Canzoniere.

«Ora vorrei farvi leggere una poesia in cui l’argomento che stiamo trattando è abbastanza esplicito. Prendete il componimento numero CXVII. Signorina Reynolds, legga per favore.»

Emanuela cerco la pagina, si schiarì la voce e iniziò a leggere: «Se ‘l sasso ond’è più chiusa questa valle, /di che ‘l proprio nome si deriva, /tenesse volto per natura schiva /a Roma il viso ed a Babel le spalle, /i miei sospiri più benigno calle /avrian per gire ove lor spene è viva; /or vanno sparsi, e pur ciascuno arriva /là dov’io li mando, ché sol un non falle…»

«Basta così, grazie. Quindi, come potete notare, Valchiusa è rappresentata come una pietra che raccoglie i sospiri sparsi, come il Canzoniere raccoglie le poesie sparpagliate. Questo tema delle poesie disunite lo abbiamo già visto nel primo poema, che ha questo incipit: “Voi che ascoltate in rime sparse il suono”

Lorenzo diede un’occhiata all’orologio: le dieci e quaranta.

Uffa” pensò, “mancano ancora venti minuti alla ricreazione.” Aspettava con ansia l’inizio dell’intervallo, non perché si stesse stufando, anzi, al contrario, la lezione era affascinante. Era determinato ad andare alla ricerca di quel ragazzo di nome Edoardo. Se prima credeva che fosse il suo vecchio amico, ora ne era più che sicuro. Voleva trovarlo, parlargli e ricostruire la loro amicizia.

È lui, me lo sento. Devo trovarlo. Chissà se si ricorderà di me dopo nove anni. Be’, io gli farò tornare a galla tutti i ricordi. Mi presenterò, gli racconterò qualcosa di noi da piccoli e, nel caso in cui non fosse sufficiente, gli mostrerò le foto. Per fortuna le ho sempre dietro.” I suoi pensieri furono interrotti nel mo­mento in cui sentì dei leggeri colpi sulla schiena. Si girò e vide Niccolò che, seduto al banco dietro il suo, lo stava chiamando.

«Che c’è? Che vuoi?» bisbigliò.

«Si può sapere che cosa ti è preso in sala? Amy e io siamo andati a votare e tu sei rimasto fermo a fissare il vuoto. E non solo in quella situazione, anche quando l’assemblea era finita e stavamo per tornare in classe. Perché hai aspettato l’ultimo minuto per dare la tua preferenza e uscire dalla sala?»

Lorenzo non sapeva cosa dire. Indugiò per qualche secondo e decise di dare una risposta vaga: «Niente, è che… ero assorto nei miei pensieri… Ecco tutto.»

«Capito… Ehi, ma tu chi hai preferito?»

«Edoardo. All’inizio però avevo pensato di scegliere Diana.»

«Anch’io dato il voto a lui. La sua idea di introdurre gli armadietti come nelle scuole inglesi, statunitensi e australiane non è affatto male. Uno può lasciare le cose a scuola e non doversi caricare ogni mattina lo zaino pieno.»

«Ragazzi» li interruppe il docente. «Signor Hassan e signor Aguilar, se volete fare salotto, andate fuori. Non potete disturbare gli altri.»

«Scusi, professore» disse Niccolò. «È colpa mia.»

Lorenzo Tramontana


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