Mahsa Amini, uccisa per aver scelto di NON indossare il velo.

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Per non dimenticare Mahsa Amini

Mahsa Amini era una giovane ragazza di soli 22 anni.

Per raccontare la sua storia, purtroppo, devo parlare al passato, perché Mahsa è morta.

Masha è stata uccisa a Teheran (Iran) il 16 settembre 2022 dalla polizia religiosa, la Ershad, istituita per mantenere l’ordine pubblico nelle strade della città, ivi compreso il controllo sulle donne, tenute a indossare vestiti appropriati e a pettinarsi secondo le prescrizioni della legge sull’obbligo del velo.

Per gli amici e parenti, Masha era conosciuta con il nome Zina o Jîna Emînî (in persiano) e quel giorno si trovava a Teheran, capitale dell’Iran, per trascorrere qualche giorno di vacanza con la sua famiglia.

Quella che doveva essere una normale e tranquilla passeggiata in famiglia, purtroppo, però, si è concluse nel peggiore dei modi.

Il 13 settembre Jîna Emînî (Mahsa) venne arrestata dalla polizia religiosa, la Ershad.

La sua colpa? Non avere indossato correttamente il velo.

Se per noi molte semplici azioni di routine, come scegliere la propria pettinatura e quale indumento indossare, risultano scontate, lo stesso non può dirsi per tantissime donne iraniane.

In Iran, dal 1981, tutte le donne del Paese, residenti e straniere, sono tenute a rispettare la legge sull’obbligo del velo. Oltre ad essere obbligatorio l’hijab, necessario per coprire il collo, le spalle e i capelli, non è consentito portare abiti aderenti, a meno che sopra gli stessi non vengano indossate delle tuniche che impediscano la visione delle forme femminili. Inoltre, è possibile indossare solamente specifici modelli di gonne, ossia quelli che coprono l’intera gamba, fino alla caviglia.

Mahsa è morta tre giorni dopo il suo arresto.

La causa?

Ufficialmente: infarto.

Clinicamente: emorragia cerebrale.

La sua morte pare sia riconducibile a un pestaggio.

La polizia negò tale epilogo, affermando che la ragazza fosse deceduta a causa di un infarto: nessuno credette a questa versione!

Il fratello di Jîna Emînî, che era con lei durante il ricovero, sostenne di avere notato diversi lividi sul corpo e sulla testa di sua sorella.

Tali affermazioni non furono le classiche invenzioni da parte di familiari che non riescono a comprendere la morte di un proprio caro.

Troppo spesso ai parenti e agli amici delle vittime viene chiesto di farsene una ragione.

Nel caso di Masha alla famiglia venne addirittura proposto di rilasciare un’intervista per smentire quanto da loro in precedenza affermato, in modo tale da far cessare le proteste e scagionare la polizia.

Ma, ciò che venne denunciato dal fratello di Mahsa, purtroppo, trovò riscontro con quanto dichiarato dai medici che presero in cura Jîna Emînî subito dopo il pestaggio.

Secondo i medici della struttura sanitaria, Jîna Emînî giunse in clinica quando era già cerebralmente morta.

Inoltre, i medici constatarono che Mahsa, oltre ad aver subito una lesione cerebrale, riportava sanguinamento dalle orecchie, lividi sotto agli occhi, fratture ossee, emorragie e edema cerebrale.

Come è possibile che una ragazza di soli 22 anni possa morire di infarto e, allo stesso tempo, riportare tutte queste gravissime lesioni?

La polizia durante l’arresto comunicò alla stessa Jîna Emînî, e a suo fratello, che sarebbe stata accompagnata in un centro di detenzione per essere poi sottoposta a un breve corso sull’hijab e che il procedimento avrebbe comportato un impegno di massimo un’ora.

Evidentemente, anche in quel caso non venne applicato il “protocollo”, soprattutto se si considerano le importanti rivolte civili che si stavano attivando nella gran parte del Paese.

La morte di Jîna Emînî (Mahsa Amini) scatenò diverse proteste durante le quali, secondo la ONG Iran Human, avrebbero perso la vita oltre 50 persone, fra civili e militari.

A distanza di un anno dalla morte di Mahsa Amini, le ribellioni contro la polizia religiosa e il regime iraniano sono ancora in atto, interessando la parte nord dell’Iran (Rezvanshahr, Babol e Amol) e quella occidentale, il Kurdistan Iraniano, luogo di origine di Jîna Emînî, fino ad estendersi alla capitale, Teheran.

Il ruolo centrale di queste proteste è occupato dalle donne iraniane, le quali manifestano il loro dissenso bruciando il proprio velo e tagliandosi i capelli in luoghi pubblici.

In Iran manifestare apertamente il proprio dissenso è un atto sistematicamente represso dal regime.

È doveroso ricordare anche il noto caso di Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa iraniana, condannata con sentenza definitiva alla pena di 33 anni di carcere e 148 frustate, per essersi battuta per i diritti umani e per i diritti delle donne dell’Iran.

La morte di Mahsa Amini ha suscitato reazioni e contestazioni in tutto il mondo, anche in Italia.

Selena Sanna

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