Le persiane erano socchiuse nel tentativo di filtrare la luce accecante di quei giorni.

Disteso sul divano con il braccio penzolante a sfiorare il pavimento immaginava di iniettarsi una dose d’eroina nel braccio sinistro.

Non aveva mai fatto uso di droghe pesanti, ma in quel momento l’idea sembrava conciliargli il sonno e di dormire sentiva proprio di averne bisogno.

Costringeva gli occhi a rimanere chiusi nell’ostinata voglia di non guardarsi più attorno.

Avrebbe desiderato accecare anche i propri pensieri, se ce ne fosse stato modo, o almeno cancellare quella insulsa serie di immagini che gli affollavano la mente.

Se non fosse stato per quella sensazione di pesantezza del corpo, probabilmente sarebbe riuscito a viversi come un ricordo lontano o come un qualcosa di non troppo nitido nei contorni.

Un qualcosa che lasciasse dubbi sulla interpretazione degli eventi ed una qualche possibilità di reinventarsi una vita o qualcosa del genere, ma l’intera vita era ormai madida di sudore e sembrava non avere nessuna intenzione di staccarsi dalla pelle.

Come tutti quelli che non erano stati ai patti, era stato relegato ai confini di un mondo che non aveva ancora capito.

Scivolare in un fiume di persone relegate all’esilio dai cuori altrui sembrava la punizione più probabile, immediata e consueta per chi, come lui, si era macchiato di ogni orrendo crimine che la felicità porta con sé.

Probabilmente lui avrebbe fatto lo stesso, se nel gioco delle parti si fosse trovato ad interpretare il ruolo della vittima.

In quanto a quel fiume così pieno di persone dimenticate, forse ci era già scivolato da tempo, ma lentamente, senza dare troppo nell’occhio.

Non immaginava che il prezzo di un attimo di felicità non condiviso con gli altri e dagli altri fosse così alto: lapidazione, fustigazione ed esilio.

Condanna inevitabile in un mondo di relazioni che non fa altro che replicare sé stesso all’infinito, nell’assurdo tentativo di aggrapparsi ad un senso di sicurezza e protezione, schiacciando l’universo intero all’immobilismo più feroce.

Restavano i sorsi d’acqua a lenire l’amaro in bocca per il male cagionato ai suoi figli, a sua moglie e a quel momento di felicità vestito di niente che, per quel breve attimo, era passato nella sua esistenza a ricordargli che la vita è vita perché si muove, ma che nella vita nella folle corsa verso la felicità, a differenza del gioco delle bocce, per essere felici non basta andarci vicino.

Giancarlo Pansini

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