Non era morto.

Ne era più che certo.
A più riprese si era tastato il corpo per fugare ogni dubbio in proposito.
Probabilmente si era trattato di un brutto sogno, benché non rammentasse di essersi addormentato.
Del giorno del suo giudizio universale, ricordava poche cose.
L’aula del tribunale, il volto del suo avvocato, i cancellieri e la fiumana di anime venuta ad assistere al processo.
La sua vita era stata sminuzzata, esaminata, discussa.
Non gli era rimasto neanche un secondo che ormai potesse sentire suo. Semplicemente e solo suo.
Il suo avvocato era combattivo, ma lui lo teneva a freno.
Ogni volta, ed erano state tante le volte, che si era alzato nel tentativo di opporsi o di porgere qualche viva rimostranza, lui lo aveva bloccato parandogli il braccio destro davanti.
Si limitava ad ascoltare.
Aveva da sempre immaginato che un giorno o l’altro si sarebbe dovuto trovare a fare i conti con la sua vita.
Le accuse erano pesanti e tante.
Cosa avrebbe mai potuto dire in sua difesa?
Lasciò correre.
Attese con pazienza l’esito finale del dibattimento e accolse la sentenza come il naturale proseguimento delle cose.
Quando l’udienza fu conclusa, si limitò a fissare a lungo Dio diritto negli occhi,
finché questi non abbassò lo sguardo.

Giancarlo Pansini


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